1983 - Tra arte e vita, nell'espressione visuale come in qualunque altra dell'area estetica, non è detto sia sempre una rispondenza. E come si presentano al fruitore opere di artisti molto vissuti che rispecchiano invece una radicale evasione, così in artisti magari poverissimi di esperienza sofferta nel quotidiano scatta l'ispirazione sociale, sì articola nelle loro opere l'ironia e la protesta.
Nel caso di Gabriella Capodiferro, dal 1962 impegnata sia nella vita che nell'arte come docente e come pittrice, ì due termini dell'equazione non si sono mai eguagliati; forse la pittura era per lei un completamento e una verifica poetica, dì grande e incìelato ottimismo. Amanti, adolescenti, madri e bimbi recitavano per lei in cromie tenui e affettuose ciò che la "praticità" della vita, se proprio non le negava - come valida e moderna professoressa, come moglie e madre -certamente le rendeva difficile.
Anche l'incontro con l'avanguardia storica, dalla lezione di Braque a quella di Matísse, avvertita fin dai tempi dell'Accademia di Belle Arti a Venezia sotto la guida di Bruno Saetti, era stata per Gabriella una specie di evasione. I risultati erano pregevoli, ma non persuasivi, - specie considerandoli alla luce del poi -, specchio di un non consapevole compromesso fra sogno e realtà, una realtà comunque mai irta di spine, mai portatrice di precise e dolorose angosce.
Ecco però che verso il 1978 questa situazione abbastanza stabile si interrompe e si capovolge. Per una vicenda che ha interessato l'Italia intera, (l'aver discusso in una esercitazione coi suoi alunni il tema "Sessualità e mass media") Gabriella Capodiferro è processata e condannata, poi assolta perchè il fatto non costituisce reato. Gabriella, non iscritta a partiti, neppure femminista in senso di aggregazione, combatté la sua battaglia da sola contro una mentalità retriva sotto ogni punto di vista; dalla paura di conoscere la verità con nuovi metodi didattici, al falso pudore del per-benismo delle generazioni dei più adulti padri e nonni con la pistola facile dello scandalo a difesa del loro quietismo.
Tra le molteplici esperienze dell'artista, due emergono in tutta la lunga vicenda e che toccano molto da vicino la sua pittura, presente anche in questa mostra personale: la settimana trascorsa in carcere a San Donato di Pescara insieme con altre undici detenute, due omicide, due spacciatrici di droga, una rapinatrice, una favoreggiatrice di brigatisti...
La seconda esperienza, strettamente legata alla prima, fu l'iter burocratico giudiziario processuale, per vizio del quale mentre l'artista e la professoressa si sentivano ed erano pur sempre quelle di prima, tutto e tutti, operavano come se fosse quella imputata incredibile che recitava l'articolo 528 del codice penale, colei che aveva commerciato e diffuso materiale pornografico a scopo di lucro! Questa seconda esperienza, di non riconoscersi più nello specchio degli altri, come se dovesse ogni volta farsi perdonare una colpa non commessa, perfino davanti ai suoi alunni che l'adoravano e che la sostennero meravigliosamente al processo, fu la causa principale del suo più profondo mutamento artistico. Anziché continuare nell'intrepido ma vulnerato magistero di insegnante, Gabriella Capodiferro si é guardata dentro, ha fatto leva per la prima volta nella vita sulla sua me-moria del dolore, ha cominciato a raccontarsi. Sentiva che la pittura di oggi doveva passare da li, da San Donato, dalle persone incontrate in carcere, dalla umanità straziata di cui anche lei aveva fatto parte. La bellezza della pittura di ieri é diventata cronaca coraggiosa di fatti non cancellabili, l'avanguardia artistica, nelle sue schegge di segni e bagliori cromatici, un umile arma con cui colpire. Oggi Capodiferro dipinge per ritrovare l'immagine di se stessa non nella evasione, ma dentro la sua storia.
Dinnanzi al gruppo delle opere che vanno sotto il titolo "I giorni di San Donato" il fruitore avvertirà una sorta di esacerbazione cromatica con prevalenza dei bruni e dei violetti su un tessuto scabro, antigrazioso, di semplificazione talvolta ridotta allo schema, a privilegiare il racconto e il fumetto, dove conversazioni fra donne, ridotte a poco più che violetti e rossi fantasmi, celle che quasi si capovolgono in prospettive allucinate, personaggi dei tribunali e dei ministeri rampanti sulle proprie elucubrazioni, planimetrie di carceri, di letti, di gabinetti, si alternano a figure di incubi, come per es. "Sesso e burocrazia" (1982), senza alcun riguardo alla "delicatezza" e alla armonia dei segni e dei colori: quasi che l'artista, trattenuta a stento dalle Muse, che pure l'amano e la rispettano, si fosse messa a gridare tutta la sua ribellione anche alla "bella pittura", per un'altra pittura più vera e dolente, incespicata quasi nel tragico quotidiano.
Si guardi fra questi lavori di taglio medio piccolo "La mia cella": uno sguardo della memoria triste ma non ostile, perché Gabriella Capodiferro ha saputo comprendere dalla sua prigione, la prigione che è fuori, nelle coscienze, nelle immaginazioni, nelle idee; e allora, ritornando a San Dona-to con l'aiuto dei pennelli, trova nelle immagini anche il punto di partenza della sua nuova verità, la meditazione sulla umanità tradita da se stessa, umiliata per la paura di aver coraggio. La reminiscenza picassiana é abbastanza evidente, se si tien conto del Picasso visto attraverso i verdi e i viola delle pavimentazioni e degli interni di Cassinari.
Ancora più evidente é questo modo di protestare di Gabriella col perdono negli occhi, nel dipinti "Qui si vive" dove la cella é ripetuta quattro volte, tanto che pare uno spaccato di carcere, finestre quadrate, cieche o di cielo, con le sbarre, i water che dominano la scena, le immense toppe delle chiavi, il gelo delle mattonelle con quelle luci tra mattatoio e obitorio. Eppure in certe cromie che riescono a splendere dopo tutto quel graffiare e impastar di tecniche miste, nel quadro si può leggere tra le righe, meglio direi tra le sue braci colorate, una vita che non finisce mai di essere bella, anche nelle più squallide brutture. Così il bello in pittura diventa il buono, la felicità estetica un modo di comprendere la vita in profondità. Certo il fruitore perderà, nella muta eloquenza delle immagini di Gabriella, quella parte di racconto che io ho ascoltato anche dalla sua viva voce: la zingara che si informa se Gabriella è omicida e le passa comunque tra le sbarre una tazzina di caffé; il secondino di ronda che viene provocato dalle detenute in vestaglia mentre giocano a carte; la muta, che poi parla e ride e piange alla presenza di una tribù di parenti venuta a trovarla; il pudore ferito per esser vista seduta al gabinetto dallo spioncino.
Un equivalente di queste storie é dato dall'immagine "Ventiquattr'ore" dove le mura, i cessi, i cuori, le scritte diventano quasi il simbolo della privacy umiliata.
Gli schemi di questa narrazione per quadri sono talvolta arricchiti da scene simboliche ché sembrano prendere le mosse, quanto a fonti stilistiche, dagli espressionisti, a cominciare da Ensor. Mi riferisco al quadro "L'interrogatorio" in un delirio di rossi e gialli addipanati nel segno di pennello. Così pure ne "La questione giuridica", dove alla cromia si sostituisce con efficacia il disegno, per sicuri schemi cubisti, ci trovi il sapore di un Grots visto da Maccari. Il letto, l'isolamento, il pasto, l'ospite, sono titoli e argomenti che non hanno bisogno di commento, a questo punto della mia ricognizione.
Ma Gabriella Capodiferro non é tutta qui. Sia perché fuori della sua vicenda didattico giudiziaria ha potuto ritrovare anche i motivi delle passate tenerezze, dei vitali e mai rinunciabili rapimenti, sia perché i modi coi quali si era felicemente espressa, specialmente nella sua mostra personale nella sala XX settembre di Terni, Assessorato Pubblica Istruzione e cultura (Maternità, sessualità, rap¬porti di coppia, etc.) non sono andati perduti. Infatti non v'é esperienza artistica che in qualche modo non si recuperi. Solo che adesso l'amore per i figli, la coniugalità, la solidarietà per gli amici e per la gente che la circonda, sente accanto al dolore e non più come dentro una nicchia.
I due gruppi che affiancano quello de "I giorni di San Donato", uno dedicato alla maternità e un altro ai personaggi, stanno a dimostrarlo. Si nota in tutti e due i gruppi un maggior movimento, anche nella scelta dei modi stilistici, mai in contrasto, anche se di diversa partenza: mentre nelle fasi pittoriche e grafiche precedenti a questa l'artista uniformava troppo il segno in uno schema e faceva circolare il colore parsimoniosamente dentro larghe campiture, ora la cromia si irrobustisce, canta come in "Madre dolorosa", "Madre e figlio", "Maternità n. 4"; anche nelle monocromie sui rosa, gli ocre, certe madri col bambino sono più intense e vere (vedi "Maternità n. 6" del 1981) Contemporaneamente l'artista spazia in questi motivi privati e familiari dentro la lezione avanguardistica: raffinatezza ed eleganza, segno e macchia si danno la mano ("Maternità N. 1, N. 2, N. 3, N. 4 ne sono gli esempi più felici).
Poesia e intensità di sentimento, dicevo, che si moltiplicano in una specie di reciproco contagio, da volto a volto, di figura in figura ne "I personaggi": da "Dora" seduta e disegnata felicemente in sanguigna, che pare una delle maternità senza bambino; a "Stato d'animo" un disegno eseguito a capello, molto largo nell'impaginazione; da "Ritratto di signora" tra i più felici sguardi a sguardo, di donna fiera di esser tale; a "Chiara", una figura tra grigio e rosa allungata come un fiore; a Rossella, a Manuela, quest'ultima tenerissima fanciulla, imbastita come per un canto d'amore.
Sono nella mostra alcuni di questi personaggi collegati insieme da un'unica cornice o dentro le belle bacheche della galleria. La diversità nella unità del motivo ritrattistico, la qualità che viene verificata anche attraverso modi diversi, ora cromatici ora grafici tout court, la prepotente tenerezza dell'artista verso il ruolo della donna, al punto di ritrovare in tanti volti lo specchio di se stessa, fanno di questa terza partitura di lavori presente nella mostra qualcosa di più di un nobile gineceo: l'altra faccia della luna del vivere sincero, il proposito, in immagine, di capire e di amare, la pittura come umano destino.
1986 - Una delle vicende umane ed artistiche che ho seguito con amore nella mia vita è stata, ed è, quella di Gabriella Capodiferro, insegnante intrepida e laica, anticonformista, madre e sposa, pittore di notevoli qualità ed estro, reduce da una avventura burocratico didattico processuale giudiziaria, che commosse tutta Italia (accusata di pornografia per aver studiato insieme coi suoi alunni il fenomeno scientificamente attraverso le fonti, specie i mass media, assolta perché "il fatto non costituiva reato", ma non abbastanza (la formula voluta dai ministeriali era "per non aver commesso il fatto"). Gabriella Capodiferro fu incarcerata e quando poté riconnettere su questa ignobile azione patita, dietro anche il mio consiglio, cominciò a rievocare la sua vicenda ne "I giorni di San Donato" come trascorsero nell'umiliazione le giornate, tra mura, cessi, cuori graffiti e scritte varie che erano diventate per lei - e per tanti altri - il simbolo di una privacy mortificata. Il suo diario di memorie fu poi presentato da me insieme con una serie di personaggi-ritratti, in gran parte di donne e di madri, che rappresentavano quasi l'altra faccia della luna, la serenità e l'armonia di un ambiente familiare e coniugale, messo in crisi, suo malgrado. Naturalmente fin dal tempo in cui nella Sala "XX Settembre", a cura dell'Assessorato P.I. e Cultura della Provincia di Terni, Gabriella Capodiferro espose una scelta di sue opere (1980) era molto bene orientata verso i maestri dell'avanguardia storica; e questa sua cultura visuale venne a conflitto con tutta una serie di umane e, direi, cronistiche figurazioni, un brusco ma vivacissimo impatto tra arte e vita, specchio di questo, la originale mostra personale all'Astrolabio-Arte, dei signori Carducci, in Roma, nel gennaio 1983.
Non starò qui a rievocare i modi e i limiti di quella positiva esperienza dell'artista abruzzese: dirò solo che per la prima volta la facoltà del dipingere, da dono di bellissimo ornamento, diventava modo di confessione, necessità di esprimersi con quei mezzi e non altri, a calamitare nell'immagine tutta quanta l'identità di una donna in mezzo alla vita.
Chi vedrà la attuale mostra alla Galleria Margutta di Pescara si accorgerà della completa assenza di spirito di carriera detta pittrice, la quale, più ancora che nel momento in cui preparava i quadri per la sua storia vissuta, nel 1981-82, ha voluto vivere la sua interiorità, con questa differenza: che gli argomenti delle sventure giudiziarie, carcerarie, burocratiche e didattiche le facevano ressa dentro, il suo disegno, le sue composizioni apparivano per scomparti, frammenti, riquadri, più grafici che riscaldati dalla pittura e questa pittura sovente rotta, offuscata, come da grida e lacrime; l'andante diaristico offriva una traccia sgomenta di luci e di ombre, di proteste e di affabulazioni, la prigioniera voleva riuscire ad amarsi e a rispettarsi anche tra quei corridoi gelati, in mezzo a tante altre, in attesa di giudizio. Ora, invece, ha avuto un tempo maggiore a disposizione, dal 1983 quasi, ad oggi, per meditare, per una sua più globale identificazione al di là del personaggio che ha dovuto fare i conti con lei stessa, della insegnante tradita dal conformismo di tutti.
Così si assiste in questa fase così unitaria e riconoscibile della pittrice, una trentina di lavori ad olio (sovente una grafica e una pittura come di affresco) ad una crescita qualitativa e ad una indubitabile intensità dell'immagine, più disponibile nei paesaggi che nelle figure, anche se proprio nei paesaggi oggi l'artista trasfonde con maggior fusione tra natura e cultura, tra eredità di avanguardia - cadenze espressioniste e pre espressioniste alla Munch, ma anche alla Gauguin e con un certo déco - e amore per l'esistente, ciò che prima sentiva nelle figure de "I giorni di San Donato".
Un punto di passaggio fra ieri e oggi - e cioè fra i due gruppi di opere esposti all'Astrolabio e alla Galleria Margutta di Pescara - è la "Grande finestra con uccello e orologio", dipinta dopo la mostra romana. V'è qualcosa di maggiormente costruito e libero dai legami di cronaca delle piccole e medie pitture autobiografiche e perciò può esser considerato uno dei quadri migliori in quel momento. Ma, come ho già detto, questi di ora sono altra cosa.
È intanto una sorpresa ammirare i quadri dal vero, dopo aver conosciuto certi loro risultati dalle pur belle fotografie, perché se le foto uniformano, i quadri ci riportano a quella fatica di officina che è grafica e insieme pittorica, di analisi e di sintesi insieme, di immagine araldica, come ritagliata dentro una irraggiungibile contesto spaziale o atmosferico e di pittura, che pure vuole raggiungere la sua prospettiva nella composizione, la sua cromia nella densità della materia, ora stesa, ora resa trasparente e come graffiata su un intonaco, in quel fluire e rapprendersi, in quel rampollare della visione, come una fantasia magmatica, che in un punto scotta e in altro si raggela: per esempio "Colline rosse".
Anche quando il dipinto è più epidermico con una soluzione quasi di grafico pannello "Storie di nuvole, cieli e radici" (L'artista mi dice che ha eseguito il quadro in modo che, capovolgendolo, "è lo stesso", come in un gioco speculare) e questo pannello contesto verticalmente di immagini-sudario, assume sempre una singolare vis unitaria, perché le singole emozioni militano tutte insieme a una sorta di possesso, direi di aggressione, della disponibilità del fruitore.
"La grande estate" è una roccia affiorante dentro uno spazio araldico, pieno però di tenerezza cromatica. Le sovrapposizioni delle immagini di natura o particolari come in successivi fogli o pagine, non fanno collage, e cioè non restano elementi "decorativi" di pur nobile armonia nell'insieme, ma icona, quasi che il tempo, per successive presenze di cose viste o ricordate o restate a lungo in una rétina morale, per successivi sguardi di comprensione, avesse portato alla tela una lunga e travagliata meditazione. Perché è questa la Gabriella Capodiferro di oggi, tenera e puntigliosa, dolcissima nella solitudine ormai resa agevole come un nido e innamorata dalla vita. La sua rocca di Chieti, il suo studio di Pescara le fanno vedere le cose della natura con l'andante musicale di chi ascolta i propri maturati, dominati sentimenti. "Vespro e memoria", ci dice proprio questo; le nuvole, il cielo sghembo che pare precipitare, la roccia, il castello, in quel "'mondo" lavagna e violetto, sono i soggetti recitanti dei suoi pensieri.
E che dire di "Paese azzurro"? In questo quadro la pittrice ricorda un po', ma positivamente, le cromie azzurrine in prevalenza della sua mostra passata; ma qui il colore decolla e sopra quel piccolo paese alla Klee cantano espressionismi astratti, quinte geometriche dove un Hundterwasser e una Viera da Silva sorridono senza farla da padroni.
Gabriella Capodiferro è la prima volta che, a parer mio, raggiunge una sua completa unità fra ispirazione e cultura, e se questo pacchetto di modi di dire resta pur sempre semplice, difficoltato nella mai del tutto cognita espressione, raggiunge felicemente il suo obiettivo di naturalezza: in "Paesaggio rosso" infatti è una grafia che rampolla su un alone rosso arancio, in una rara misura, sempre che questa misura sia intesa come armonia della instabilità, come rimando dell'atmosfera al segno e viceversa. Ritmati, i monti dell'Abruzzo diventano sipari, quinte, palcoscenici per un teatro dell'anima di Gabriella, la quale non sapeva del Parco Nazionale d'Abruzzo e che la sua terra poteva donarle montagne che tanto le somigliano dentro.
Felicità di esecuzione e difficoltà di elaborazione questo lento crescere dell'immagine, tanto nobile e pura, quanto disadorna, specchio di una raggiunta armonia interiore, ho ritrovato in alcuni altri suoi lavori, che non voglio qui dimenticare: "Trofeo di nuvole" (delizioso e solenne, in un cielo vio-letto, un gruppo di nuvole tiepolesche che si tingono di più solfuree luci, diciamo "napoletane"; "Il lago non c'è più" "Perché arrivarono e trovarono soltanto una pozza verde" ma in questo rinvenimento fuori dello spazio in cui doveva estendersi il lago, l'artista ha generato la vita, o meglio, la fantasia che rinnova la vita.
1996 - Mi è accaduto ritrovandomi nell'officina artistica di Gabriella Capodiferro dopo tre anni che non ci passavo, di volere quasi subito registrare sul mio taccuino le positive e forti emozioni che avevo provato nel leggere le sue nuove opere e pensavo di poterle trascrivere subito con qualche aggiunta non appena arrivato nel mio eremo ostiense, per quanti avranno domani l'occasione di ammirare nella mostra i risultati dell'artista.
Ma mai come questa volta una pittura complessa e misteriosa nella forma, negli attingimenti, ha bisogno di essere collocata nella sua storia e spiegata nel suo metodo; perché solo in apparenza può essere lo specchio di una irrazionalità di un fare, a cavallo della tigre dell'impulso, di un prevalere dell'immaginario all'insegna, per esempio, del post-impressionismo, di un convinto andante paesistico.
Al contrario la pittrice abruzzese viene, intanto, da lontano e fin dai tempi dell'Accademia ha sviscerato i modi dell'avanguardia storica.
Io negli anni Settanta l'ho incontrata, impegnata in una sua "autobiografia" dove il rapporto spazio-tempo, rinnovato in radice da Picasso, era da lei adoperato perfettamente.
L' angoscia della generazione a monte della sua, di fare il salto astratto, non le appartiene perché l'interrogativo figura-non figura non é stato mai un suo problema. E neppure é artista che professa la pittura nata dentro l'ismo informale, più o meno in ritardo, per non apparire accademica e naturalista, costretta pertanto a rimanere legata a un rituale afigurativo e materico.
Non tutti i neo informali di oggi sono alla fine retrospettivi; taluni hanno saputo operare su quel loro vivere al passato una certa dialettica, ma ognun sa che l'Informale é stato lo specchio di un grave turbamento esistenziale dovuto alla guerra fredda nella paura che scoppiasse l' atomica daccapo, e che difficilmente quelle forme angosciose, da Burri a Pollock, da Fautrier a Kline si possono prestare ad esprimere contenuti diversi, a cominciare da una società turbata da nuovi crolli e nuove patrie, miti perduti e violenze di consumi. Dall'Informale come tendenza a questi pochi anni prima del Duemila, troppa acqua é passata sotto i ponti: la pop art, il concettuale, il comportamentismo (compresa la transavanguardia che ha propinato una sorta di super manierismo avanguardistico) la "nuova maniera". Tutti questi movimenti culturali ed artistici hanno dato il senso di una continuità ed al tempo stesso di una vita inestinguibile della ricerca, ma hanno creato anche una specie di alibi agli artisti d' oggi: poter operare, con una rincorsa lunghissima, magari cominciando col Museo e chiamandolo a correo dei loro estri di cavalletto.
E perciò anche Gabriella Capodiferro si é presa la sua libertà: costruire il quadro, con un ready made personalissimo.
Un "oggetto trovato" da lei stessa creato, di carte veline colorate, opportunamente trattate, sciarpe cromatiche molto leggere che svolgono un ruolo fondamentale alla maniera di grandi velature e stratificazioni "poveristiche" sulla superficie della tela, tutto un lavoro di collage e di decollage col mezzo cartaceo predipinto.
Naturalmente questo metodo non sarebbe completo senza l'appoggio o l'intervento del pennello, come pure di altro strumento atto a lasciare un segno.
Segno che si sovrappone alla fasciatura, alla stratificazione delle veline e garze, lega insieme e definisce, sovente antropomorficamente delle aree del quadro, quasi che, come diceva Leonardo, l’artista veda dalle macchie sul muro figure che si nascondano e le scovi con precise linee.
Gabriella pone sulla tela grezza per prime o quasi, teste di donna condotte al capello come una sinopia, le sommerge, le scavalca, con la sua operazione di "incolla e strappa" - perché il togliere in questo "dipingere" é il razionale dell'irrazionale, il ripensamento dopo il rapimento dello stendere delle carte colorate -la figura o affossata o accennata o riemersa con l'aiuto di ulteriori segni o tocchi di pennello coabita lo spazio del quadro, il quale si presenta al fruitore mai placato, irto, con splendori timbrici tenuti da toni opachi e viceversa, con paesaggi che si tramutano in scene, parabole e favole in cui la figura umana, che pare cacciata dalla porta dalla sintesi astratta, torna dalla finestra di un racconto figurativo.
Affascina questo lasciarsi guidare dalla mano artigiana dotata di una cultura visuale ricca e dialettica.
Interessante seguire questo coraggioso e consapevole prender posizione dentro un' immagine il cui contenuto si esprime non nella illustrazione, non nella sigla scontata e prevedibile, ma nel sempre vario rapporto fra realtà e sogno, fra paesaggio e favola raccontata, tra pittura di cavalletto (dopotutto l'artista non ha rifiutato il pennello, sta alla regola del quadro in cornice, non é né una concettuale, né una comportamentista) e riciclaggio di elementi poveri, sia pure da lei creati, le sue sciarpe di carte da incollare.
Gabriella non é una delle tante comparse della grande commedia artistica, é un personaggio, che io pratico e con la quale dialogo da una ventina d'anni. Molte cose per serietà, schiettezza, modo di vedere la vita e la politica, abbiamo davvero vissuto insieme, benché lontani; é raro trovare una storia ed una famiglia bella, intelligente ed aperta come quella della pittrice.
Non che essere capace di ottime azioni e di grande coerenza morale basti per fare della pittura eccellente; ma una certa concretezza e forza, una certa limpidezza ed allegria non guastano, specie se non manca il talento.
E così quanti conoscono questa piccola donna dai capelli ricci ed abbondanti, tagliati corti a far due punte ai lati della faccia tonda di fanciullina con i denti di coniglio, il pullover girocollo fin sotto il mento, la persona animata da una composta sveltezza quasi da ginnasta (ma i ginnasti non sorridono, lei sì quando completa un discorso o quando lo comincia) rimangono affascinati tanto dalla sua semplicità e comunicativa quanto dalla sua arte.
Una donna artista inequivocabile, nata, é vero, per tante cose, ma non certo secondarie a quella del dipingere; e sulla quale io non ho mai avuto dubbi. Di fronte a me, in piedi, io seduto mentre prendo appunti zitto e rapito, mi guarda con quegli occhi distanti che adesso non ridono.
Incrocia le braccia, anche lei in silenzio. Stanno parlando con me le sue opere.