Salvagnini - Gabriella Capodiferro

Gabriella Capodiferro
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1997, 2003, 2010 - Sileno Salvagnini, Abano Terme (Pd) (link biografia)

1997 - Se l'arte è un vagare indistinto di sensazioni e immagini, compito dei  critici non è descriverle, né — crocianamente — di riprodurle in se per  altra via con linguaggio scritto, trasformandosi così in "cantori" del  fatto artistico; ma piuttosto seguirne le mosse, affiancarsi a loro  quasi fotografandone la direzione. Ed anche, quando l'artista riesce a  definire con proprietà ed acume la propria opera, come sicuramente sa  fare Gabriella Capodiferro, accettarne le parole quali testimoni  insostituibili per l'esegesi.
Scrive la pittrice: "il tema esplicito  oggetto di tutte le mie composizioni è prevalentemente il paesaggio, ma  quello sottinteso è il movimento [...] Colori e materiali vengono  plasmati in immagini che, appena prendono corpo, subito dopo si disfano  per trasformarsi in altro". Poco dopo chiarisce il senso di questo  altro: è la vita nella sua complessità che per osmosi si trasferisce  dentro l'opera; un'operazione spirituale simile a quanto i giapponesi  definiscono "colorare l'agire".
Certo enunciato così il concetto  resta freddo. Ha bisogno quindi di almeno due importanti sostegni: la  tecnica e la storia personale dell'autrice. Scorrendo la biografia di  Capodiferro, si viene a conoscere che lei abruzzese, ha frequentato  l'Accademia di Venezia e si è diplomata sotto il magistero di Zotti e  Saetti. Specialmente da quest'ultimo ha attinto l'idea originale del  trattare la pittura sulla falsariga dell'affresco e dello strappo,  suggestioni che Saetti assimilò durante le dispute sul muralismo degli  anni Trenta e dalle. quali — come, in fondo Sironi — non ha saputo  staccarsi se non con la morte. Capodiferro ovviamente non realizza  affreschi nel senso vero del termine. Ma le sue tele presentano più di  una affinità con detta tecnica, a partire dall'incollarvi sottili strati  di carta, trasparenti come veli, che dipinge in anticipo; l'artista poi  interviene ulteriormente aggiungendo colore con il pennello o togliendo  parte del già incollato, per cui ne fuoriesce una sorta di anomalo  collage.
Marcello Venturoli ha trovato pertinentemente analogia fra  questa tecnica e le sinopie: cioè a dire il disegno murale fatto  sull'arriccio che serve da preparazione per l'affresco. Questa  operazione tuttavia in Capodiferro non è tanto un preliminare bensì il  tentativo di fissare, più che dei segni, che comunque compaiono, l'atto  stesso del fare pittura, la sua durata.
Spiegabile certo anche con la  pittura figurativa dell'autrice, che, da iniziali simpatie per il  linguaggio neocubista, molto forti nella Venezia in cui ha studiato, è  passata gradualmente attraverso il gestuale e l'informale sub specie  spazialista, approdando infine ad un modo espressivo tutto proprio, non  astratto né figurativo secondo le solite formule tradizionali.
Guardando  i suoi quadri, non colpisce il movimento fisico, peraltro presente, ma  quello provocato dall'eterogeneità dei materiali usati, talché il fluire  di cui parla la pittrice deriva dall'incontro fra superfici colorate  appartenenti ad un qui e ora soave e schietto, con altre strappate ed  erose come se appartenessero ad un tempo irrimediabilmente remoto, con  altre ancora, infine, simili a larve bloccate alla nascita che avrebbero  potuto essere e non sono state.
Pittura dunque come correlativo  oggettivo della vita: non, lo si ribadisce, sua mimesi o  rappresentazione, bensì cammino parallelo con incroci e divaricazioni;  ed anche come rifugio amico rispetto al negativo del mondo. Perché  l'effetto di tali superfici dipinte è dolce si, ma pure doloroso, come  se l'espressione non avesse potuto dispiegarsi in tutta la sua forza.
Non  possiamo esimerci dall'accennare qui ad una vicenda triste che ha  lasciato nella pittrice una sorta di cognizione del dolore: negli anni  Settanta ella fu vittima di consuetudini giudiziarie retrive, allorché  avendo introdotto a scuola per didattica i termini ora inflazionati di  eros e pornografia fu addirittura arrestata per qualche giorno.  Naturalmente alla fine ci fu l’assoluzione con formula piena perché il  fatto non sussisteva. Pur segnandola, l'episodio l'ha arricchita e ne ha  rafforzato la fiducia sui propri mezzi, che cioè era possibile  affermarsi sia come donna sia come artista.

2003 - Dell'informale Capodiferro non predilige l'anima turbolenta di Vedova,  né quella più musicale di Santomaso: detto in termini diversi, non ama  collocarsi nei punti di smarrimento dell'arte, poiché la sua ricerca è  decostruzione della realtà, possesso di materiali usati allo stato puro.  L'arte cioè non si trattiene ai margini del mondo, in una condizione  difficile, quasi impossibile, di dolorosa e umana presenza. E' lei  stessa a chiarire come un'esperienza triste come la scomparsa di  un'anziana congiunta sia stata motivo che l'ha catapultata in una nuova  condizione dove era difficile distinguere tra la vita e la morte, in  quanto tutto rifluiva "nella vitalità della materia cromatica e nel  continuo mutarsi dei movimenti delle forze... per sparire o formarsi  appena come traccia fantasmatica".
Proviamo a dirla diversamente.  Dalla pittura iniziale, caratterizzata da velature di colore e, spesso,  da collage sovrapposti che comunque evocavano forme, si passa ora a  quadri in cui ogni traccia figurale ha lasciato il posto al binomio  colore - gesto. All'atto del comporre e del costruire viene a  sostituirsi un processo creativo che lascia che il quadro si formi sulla  propria materialità: il colore quindi è intuito nel momento stesso in  cui la materia prende vita, nell'evento stesso del suo costituirsi come  traccia fisica e mentale. Ma materia, più che tale, è immaginata, e  coincide con un colore esile, ora più, ora meno diafano: in quadri come  Vento verde (2000-01), Ombre e luci (2000-02), Rosso in  movimento (2003), prevale un'idea di sconfinamento in tutte le direzioni  di illimitata apertura al mondo, di esplorazione di uno spazio i cui  ogni regola gravitazionale è trasformata in pura presenza di luce ed  energia cromatica. Dove non è possibile non scorgere reminiscenze dell'  "universo pieno di luce in movimento costante" del Guidi anni Cinquanta,  così come del Deluigi per il quale spazialismo equivaleva a  materializzare il fenomeno luce su una superficie vibrante.
Però il tempo non è passato invano: un abisso mentale, culturale, epocale - separa ormai da quegli austeri progenitori Gabriella Capodiferro. Che  individua nei quadri nuclei solo lontanamente evocanti i fenomeni  naturali indicati dai titoli (si potrebbero nominare D'improvviso il  sole, Il mare è sulla terra, L'ultima estate, rispettivamente del 2000-01 2002-03,  2003), apparentemente nuclei d'immaginazione dal forte intensità  naturalistica. La mutevolezza è in realtà fuorviante, perché al di là  dei diversi generi il colore risulta unico: quello di una complessa  materia che si agita freneticamente sulla superficie dipinta, ricca di  eventi metamorfosi improvvise. Le suggestioni dei blu infiniti, di rossi  corruschi eppur squillanti, dei gialli chiassosi: determinano una  condizione di natura possibile, magari un'altra dimensione, dove la  pittrice entrerà, forse, in rapporto simpatetico con lo spettatore:  dipenderà dal grado di partecipazione di quest'ultimo se ciò si  realizzerà. Ma Capodiferro, che sembra quasi prenderlo per mano, è  fiduciosa che ciò avvenga.

2010 - Tre + tre . Orazi e  Curiazi o vite parallele? Oppure artiste e basta senza il predicativo   “donna”,  accomunate dall’uso della pittura e della scultura (le prime  tre) e da quello  di tecniche appartenenti ad un differente universo  artistico  (le altre tre)? Che ci possa essere una specificità, non  ovviamente genetica, nelle artiste – donna è  ormai assodato: si pensi,  in epoche diverse, a personalità come  Lavinia Fontana, Artemisia  Gentileschi, Rosalba Carriera, Bice Lazzari, Carla Accardi, Carol Rama:  solo per citarne qualcuna fra le più celebri. Che almeno ora  possono  venire giudicate non  per essere state lavoratrici nell’ombra,   costrette a interpretare anzitutto il ruolo tradizionale di madri,  figlie, mogli, sorelle, ma per le loro qualità. Il titolo di  questa   mostra (Sestetto) evoca un complesso musicale o una squadra, mentre   alcune parole del  sottotitolo (Pittura da un lato e Tradizione  dall’altro) parrebbero lasciare intendere che, se incontro / scontro vi  è, questo va inteso come paragone fra arte “pura” o “bella”, che è la  pittura; e arte  “minore” o “applicata”, vale a dire  tutta quella  galassia di ciò che non risulta  nobile ed  eletto. Ma questo è  un  pregiudizio da cui senz’altro la mostra rifugge.
Parliamo ora delle prime tre protagoniste,  altri occupandosi delle seconde tre.
Dire  che tutte  hanno in qualche modo attinto ai succhi ultimi  dell’Informale è dire cosa ovvia, tenendo a mente però che le etichette  sono spesso  delle scorciatoie. Distinguerei quindi  i percorsi di  Gabriella Capodiferro e di Libera Carraro da quello di Anna Seccia.
La  prima, dopo un felice apprendistato nella sua regione nel campo della  ceramica, si trasferì a Venezia e frequentò i corsi di Zotti e Saetti  all’Accademia. Fra anni Cinquanta e Sessanta Venezia era un crogiolo di  fermenti pittorici, con da un lato  maestri istituzionali come Cadorin e  Saetti  giunti all’autunno  della loro attività artistica, e dall’altro  nuovi astri che sorgevano come i Santomaso, i Vedova,  gli Spazialisti.  Se è quindi verosimile che dalla padronanza di materiali come  l’affresco di Saetti o dalla predilezione verso gli universi mitici e  simbolici del suo allievo Zotti Capodiferro apprendesse soprattutto il  gusto più che la tecnica in senso stretto – che comunque non appare  elemento da poco – non è meno vero che sia stata influenzata  da  spazialisti quali Bacci e Deluigi, come testimonia  il suo amore verso  una pittura più riflettuta  che  gestuale in senso stretto, più pensata  che agita,  concepita cioè prima  che il colore scenda sulla superficie  manifestando la propria materialità. Questa era  forse la caratteristica  più rilevante di Edmondo Bacci, artista schivo non a caso prediletto da  Peggy Guggenheim: le folgorazioni dei suoi bianchi, dei suoi blu e dei  rari rossi hanno a mio avviso lasciato traccia nella Capodiferro  soprattutto nell’interpretare la tela    come spazio totale  dove il  colore  si autogenera libero da schemi. In altri momenti parlando di  Capodiferro ho fatto anche i nomi di Santomaso e di Vedova, sia pure per  contrapposizione, in quanto non mi sembrava che  vibrasse in lei né  l’anima melodica di Santomaso, né quella irrequieta di Vedova. Non a  caso a metà degli anni Novanta Marcello Venturoli scrisse  che non le  apparteneva “l’angoscia della generazione a monte della sua, di fare il  salto astratto”, e neppure poteva considerarsi artista “che professa la  pittura nata dentro l’ismo informale, per non apparire accademica e  naturalista, costretta pertanto a rimanere legata a un rituale  afigurativo e materico”. Logicamente ciò non equivaleva a dire che non  avesse respirato quell’aria, ma che ne aveva tratto delle emanazioni  particolari: ad esempio, incalzava Venturoli, l’uso nel quadro, accanto  ai colori canonici, di una serie di veline, carte, garze e fasciature  che contribuivano da un lato  a renderlo più “poveristico”, ma  dall’altro a farne un oggetto di riflessione sulla propria disciplina,  di ripensamento della pittura come confine fra sogno e realtà.
C’è  però un altro aspetto che mi pare vada messo in luce e che fa di  Gabriella Capodiferro una pittrice originale: il fatto che ogni suo   quadro riproduca  solo in apparenza un mondo concluso, rappresentando  invece un’essenza di realtà sforzata che ritorna in dipinti vicini o  lontani nel tempo. In un quadro del 1995, Io adesso e laggiù, ad  esempio,   presenze  antropomorfe simili a bambini ridotti a pura forma   galleggiano accanto a motivi che richiamano le parole scritte:  qui il  groviglio dei segni,  sparsi lacerti  di un simulacro di alfabeto,  fa  della pittura non un duplicato della natura,  ma una proiezione dell’io  che tende all’azzeramento di ogni altro stimolo che distolga dal   processo dell’esecuzione   L’ipostatizzazione del tempo e dello spazio  di cui parla il quadro ricorda  l’idea di diario e durata relativa, il  far coincidere l’opera intenzionalmente con la temporalità processuale  dell’esecuzione, che va oltre il rappresentato, al di là del quotidiano e  della fascinazione del reale, temi caratteristici della metafisica di  ascendenza cinque – seicentesca.  A distanza di molti anni, quelle  figurette ritornano in un quadro analogo, Andando a..., del 2009, più  terrigeno, di un naturalismo quasi “padano” – vengono a mente le  straordinarie riflessioni di Arcangeli  su alcuni maestri dell’informale  -. Ma i “bambini” hanno perso ora quel che di scanzonato, il  tenersi per mano come in una filastrocca, e si sono trasformati in una  sorta di pupazzi senza vita, di uomini dai  puri contorni come nelle  incisioni di riproduzione del primo Ottocento; un’ umanità naufraga e  sgomenta, forse spazzata via dal fiume impetuoso della vita odierna,   che poco o  nulla lascia all’allegria.  
Il dialogo con una  personale idea di natura corre per l’intera produzione della  Capodiferro. In un’altra opera del 1995, Cieli, acque... radici, il  colore praticamente non lascia lembi scoperti ma occupa la superficie  quasi per intero, come se le cose che nomina rischiassero di venire  mangiate da un gigantesco buco nero. Più che l’Informale evoca  D’Annunzio: l’anima del poeta può possedere le cose come possiede il suo  amore o il suo odio; ma nell’atto di esprimerle cessa di possederle,  poiché il linguaggio gli rende estraneo ciò che gli era intimo. Molti  anni dopo, in quadri come Fiumi d’acqua viva e  La voce delle acque,  entrambi del 2008, le stesure di colore sembrano essersi  coagulate ed  il “paesaggio” venire  ripreso dall’alto da  Google: come a dire che la  linea di separazione fra linguaggio e natura, prima flebile e indecisa,  conquistata attraverso un uso spericolato e incantatorio di mezzi, ora  risulta più definita, come se essa natura, un tempo presa per mano e  spalmata attorno all’artista, si sia  serenamente   fermata….
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Gabriella Capodiferro con Cristina Ricciardi, Lucia Arbace e Sileno Salvagnini alla Casa D'Annunzio - Pescara in occasione della Mostra "Sestetto d'Arte"


ultimo aggiornamento: 30 novembre 2023   
per contatti:   mgc.capodiferro@alice.it
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