2016, 2018 - Enzo Di Martino, Venezia
La Monografia completa, dal titolo Luce Acqua Vento è disponibile per tutta la durata della Mostra presso la Galleria Schola dell'Arte dei Tiraroro e Battioro a San Stae, Venezia. La mostra sarà aperta dal 7 ottobre al 6 novembre 2016 con orario 10 - 18. Lunedì chiuso
Gabriella Capodiferro: una visione dell’arte
Un’occhiata laterale
Vi sono eventi visivi che dichiarano a prima vista una posizione laterale rispetto ai consueti schemi di riconoscibililità storico critica.
Ma che, pur nel loro isolamento, reclamano ugualmente una forte attenzione perché, nello stesso momento, rivelano una orgogliosa diversità che è anche l’affermazione di una irrinunciabile verità.
Tale rifiuto della classificazione comporta naturalmente un rischio ideativo perché obbliga l’artista a ricominciare sempre daccapo l’avventura delle immagini che sembrano utilizzare solo marginalmente l’esperienza organizzativa delle forme che deriva dalle grandi lezioni storiche.
La ricerca espressiva di Gabriella Capodiferro si colloca con evidenza in questo difficile e accidentato versante dell’arte contemporanea.
Una ricerca che risponde evidentemente ad esigenze connaturate con la personalità dell’artista che pare non evitare i pericoli di una espressività distante dagli artifici del mestiere, alimentandosi invece di segreti e personali riferimenti interiori.
E’ però per tale via che si manifestano opere aperte contemporaneamente a molte derive emozionali giungendo infine ad una particolare bellezza formale che sembra non predeterminata, si potrebbe dire non intenzionale.
Si tratta di opere che non necessitano di letture esplicative nel dettaglio perché, si dice con una particolare espressione, “rappresentano solo se stesse”. Configurano cioè una sorta di canto silenzioso e poetico volto a comunicare emozioni piuttosto che a descrivere o narrare alcunché.
La pittura, questa vecchia cosa
Per molti originali, ma in fondo conformisti pensatori del nostro tempo, pare definitivamente assodato che la pittura occupi oggi una posizione del tutto marginale nel panorama delle possibilità espressive dell’arte contemporanea. L’arte, si dice, ha ormai scavalcato la sua dimensione fattuale per coincidere soltanto con il pensiero, il gesto e l’azione dell’artista.
Si tratta di una riflessione sulla quale si insiste da oltre cento anni e, per fissare alcuni punti di riferimento, si dice infatti che è difficile fare pittura dopo il mitico “Quadrato nero” del 1915 di Malevic e, ancora più radicalmente, fare scultura dopo la clamorosa “Fontana” del 1917 di Marcel Duchamp.
Ad osservare con occhi disinibiti la situazione si avverte tuttavia, in alcuni tra i più significativi protagonisti della ricerca contemporanea, pur con declinazioni formali assai diverse tra loro, una sorta di straordinaria e per certi versi inspiegabile persistenza della pittura nella loro opera.
Penso ad alcuni grandi personaggi dell’arte del nostro tempo e in particolare, per fare qualche nome, a figure quali Lucian Freud (1922-2011), Sigmar Polke (1941-2010 e Gerard Richter (1932), quest’ultimo tuttora attivo, che hanno manifestato con la pittura alcune delle più significative proposizioni poetiche e formali a cavallo tra i due secoli tormentati.
Si tratta di tre figure molto diverse tra di loro, sia da un punto di vista strettamente estetico che da quello propriamente tecnico, che hanno comunque espresso, proprio nella diversità, persistenti mondi immaginativi attraverso la loro personale concezione del linguaggio della pittura.
Per loro, infatti, pur in una diversa declinazione formale, la pittura ha rappresentato il solo mezzo attraverso il quale la figura e la forma sono diventate l’irrinunciabile apparenza del loro immaginario.
Un linguaggio a cui credere
Penso che anche l’opera di Gabriella Capodiferro vada letta all’interno di una siffatta condizione della pittura contemporanea, una condizione nella quale le coordinate di spazio e tempo celebrano un particolare rito di apparizione che pare avere regole misteriose, interne a se stesso e delle quali non da conto.
Forse perché, come ha scritto Claudio Parmiggiani, ancora oggi la pittura è forse il solo linguaggio in grado di rivelare il “mistero delle cose”, e perfino di “dare voce al silenzio della poesia”.
Evocando in tal modo anche una particolare concezione storica dell’arte, pervenutaci nel corso dei secoli come l’unica via utile per riuscire a rendere visibile ciò che è invisibile, a raffigurare ciò che non è raffigurabile, perché inconosciuto.
Del resto è per tale via che l’artista è riuscito a raccontare visivamente i grandi eventi storici, civili e religiosi, di cui aveva avuto solo una fortunosa e parziale conoscenza attraverso frammenti di racconti orali. Spesso del tutto inventati.
E a dare perfino volti credibili ai protagonisti di quegli eventi che comunque, ormai, appartengono stabilmente alla nostra cultura figurativa .
Disvelando quello che un artista ha non a caso definito il “mistero della storia dell’arte”, arricchendo anche, in tal modo, lo straordinario patrimonio di immagini e conoscenze che configurano, almeno in occidente, il nostro straordinario, condiviso ed ineguagliabile immaginario collettivo.
Obbligando peraltro, almeno la parte più consapevole della ricerca espressiva contemporanea, a considerare inevitabile ritenere che “l’arte, ancora oggi, nasce solo dalla storia dell’arte”
La natura e la figura: la pittura
Nell’opera di Gabriella Capodiferro appare evidente che la pittura non è semplicemente il linguaggio della rappresentazione ma, nella sua straordinaria autonomia formale ed espressiva, può essere invece la pura rappresentazione di se stessa.
L’artista, infatti, mette in atto una sua personale strategia all’interno della quale i pretesti ideativi – nel suo caso, in modo solo evocativo, anche la figura e la natura – si equivalgono e dichiarano di essere, per l’appunto, puri e semplici pretesti visivi.
A ben vedere, però, non vi è nulla di naturalistico nelle sue visioni di paesaggio, né alcun sentimento di nostalgia nelle citazioni di figura, perché, in entrambi i casi, le immagini si manifestano invece attraverso le sole autonome qualità emozionali e seduttive del colore.
Lo si capisce molto bene osservando con attenzione le opere di una particolare stagione dell’artista - che è quella del 2010, certamente una stagione felice nel suo percorso di ricerca – nel corso della quale Gabriella Capodiferro giunge infatti, per certi versi inevitabilmente, ai limiti di una espressività che si potrebbe definire storicamente informale.
In dipinti come la lirica “Grotta delle fate”, e nella suggestiva “Montagna madre in verde e blù”, o nello straordinario equilibrio formale di “Terra” dello stesso anno, assistiamo a ben vedere a vere e proprie evocazioni emotive assolutamente distanziate dal realismo e dal naturalismo.
E parimenti, in molti lavori del coinvolgente ciclo dedicato a Potnia, la mitica divinità protettrice degli animali, l’accenno alla figura risulta in effetti soffusa all’interno della pelle stessa della pittura.
E’ allora evidente che in entrambi i casi l’artista si distanzia dalla coscienza della natura e dal mito della storia per pervenire invece ad una nuova e più avvolgente proposizione poetica e visiva che assume infine, sorprendentemente, una nuova e riconoscibile connotazione simbolica e metaforica.
E’ per tale motivo che le opere di Gabriella Capodiferro configurano una sorta di evento che potremmo definire, come già notato, non intenzionale, perché non dichiarano alcun esplicito e riconoscibile significato ma rappresentano a ben vedere solo se stesse e reclamano semplicemente, invece, una sorprendente ed irrinunciabile autonomia formale.
Un percorso formativo
L’avventura espressiva di Gabriella Capodiferro si è manifestata ormai nell’arco di oltre quaranta anni, a partire cioè dall’inizio degli anni Settanta, e naturalmente è estremamente interessante notare che non si è trattato di un percorso lineare ma piuttosto di una ricerca segnata da sbalzi e soprassalti formali e da alcuni decisivi cambi di direzione di ricerca.
Si tratta di una vicenda che, come avviene peraltro nella vita di molti artisti, documenta l’ansiosa ricerca di identità, cioè di una propria originale e riconoscibile cifra formale, un percorso, nel suo caso, già descritto dettagliatamente da un prezioso testo storico critico di Chiara Strozzieri.
A parte la prima stagione propriamente figurativa - penso in particolare ad alcuni intensi ritratti della fine degli anni sessanta - certamente influenzata anche dall’esperienza formativa all’Accademia di Belle Arti di Venezia, sotto la guida di un maestro come Bruno Saetti, un artista distante sia dal realismo che dall’astrattismo, è tuttavia evidente, fin dagli inizi degli anni Ottanta, l’emergere di una sua personale idea di contaminazione tra figurazione e astrazione che costituirà nel futuro la caratterizzante decisiva della sua originale cifra espressiva.
Opere come “Figlia e madre” del 1985 e “Ritratto” dello stesso anno, per citarne solo due, annunciano a ben vedere, clamorosamente, una stagione di effettiva e consapevole maturità perché è qui evidente che l’artista non vuole limitare le sue possibilità espressive all’interno di una formula ma tendere invece al conseguimento di un personale e particolare linguaggio teso contemporaneamente verso diverse derive espressive tenendo conto, nello stesso momento, di numerose lezioni storiche.
Dipinti come “Trofeo di nuvole” e “La trappola” dello stesso anno rivelano infatti compiutamente questa intenzione in immagini già pericolosamente ma armoniosamente in bilico tra figurazione e astrazione.
La seduzione informale
Per tutti gli artisti attivi nel XX secolo è stato pressoché inevitabile cedere allo straordinario fascino esercitato dalla rivoluzione Informale.
Perché la negazione della forma conclusa e, nello stesso tempo, l’esaltazione del valore evocativo autonomo del colore, appariva loro come la più autentica e radicale reazione a ogni “accademia”.
L’intuizione di Michel Tapiè corrispondeva del resto alle necessità espressive di una società che, dopo la seconda grande guerra, appariva in uno stato di incertezza e confusione, anche esistenziale.
L’arte più significativa degli anni Sessanta si manifesta infatti con l’Action Painting americana, Jackson Pollock per tutti, e con il movimento Informale europeo espresso da personaggi quali Fautrier, Vedova e Tapies, per citarne solo alcuni.
E’ stato dunque inevitabile anche per Gabriella Capodiferro, artista moderna, cioè contemporanea a se stessa, avvertire le sollecitazioni della ricerca Informale che aveva peraltro la qualità di poter essere praticata con diverse declinazioni, come quella materica, espressionista o segnica.
Mettendo in atto, nel suo caso, una sorta di “combattimento per l’immagine” tenuta sempre in bilico tra astrazione e figurazione, in una sorta di indecisione espressiva che, come è accaduto a ben vedere a molti altri artisti, è stata anche esistenziale prima ancora che formale.
E’ però in una tale difficile e delicata condizione emotiva, che comportava peraltro molti rischi ideativi e processuali, che Gabriella Capodiferro è pervenuta ai suoi sorprendenti ed affascinanti esiti espressivi.
I suoi dipinti appaiono infatti intensi ed accidentati campi emozionali del vissuto all’interno dei quali hanno trovato un ordine, misterioso e miracoloso ad un tempo, esplicite citazioni figurative e segnali di una riflessione del tutto distaccata dal reale.
La riflessione più recente
Come tutti gli artisti del nostro tempo Gabriella Capodiferro vive con avvertita consapevolezza le molte tensioni e i numerosi conflitti che percorrono il mondo, avvertendo dunque la fragilità e l’instabilità delle possibilità espressive dell’arte contemporanea.
Ma è inevitabilmente ad essa che ancora crede, come ad una personale religione dell’anima, ed alla quale affida la sua stessa probabilità esistenziale.
Anche perché l’artista sta entrando in quella che un grande Maestro chiamava la “grande età” nella quale ciascuno fa inesorabilmente i conti con la propria storia, senza facili concessioni, senza sconti generosi ed accomodanti.
E’ un processo che appare assolutamente chiaro e leggibile nei dipinti più recenti, quelli realizzati negli ultimi due anni, nei quali è evidente che Gabriella Capodiferro ha assunto una posizione più radicale e forse definitiva nei confronti della pittura e della sua stessa ricerca espressiva.
All’interno della quale prevalgono ormai le motivazioni e le necessità interiori più spirituali, in particolare un nuovo e più forte sentimento della luce, avvertita come una sorta di “religione della pittura”.
Ecco allora, per citare alcune di queste opere, ad esempio “Silenzioso andare” del 2015 nel quale, nella dominante di un giallo luminoso che condiziona tutta la tessitura pittorica, apparire una visione nella quale l’assoluta astrazione configura una sorta di spirituale canto poetico. Come avviene peraltro anche in “Onda anomala” dello stesso anno o, con un’accentuazione ancora più definitiva, in “Bianco ascensionale” del 2016, nel quale l’evocazione della purezza espressiva, affidata al colore bianco, fa assumere al dipinto l’intensità di una vera “preghiera dell’arte”.
Epilogo, naturalmente provvisorio
Il tentativo di restituire, in una breve nota come questa, la complessa partita espressiva di Gabriella Capodiferro, risulta certamente difficile e inadeguato.
Anche perché la stessa artista è giunta ormai nella condizione di esprimere lei stessa motivazioni di sapore fortemente spirituale che hanno poco a che fare con la descrizione dei procedimenti concreti nella manifestazione della pittura e dell’arte.
Non deve meravigliare, perché i segnali erano già chiaramente visibili in tutta la sua opera precedente.
Da questo momento l’opera di Gabriella Capodiferro sembra però volersi alimentare solo di un autentico “soffio vitale dello spirito che tutto muove e rinnova e di cui è permeata ogni cosa della vita e del mondo”.
E si dirige verso “confini che non conosco”, dice lei stessa, ma che “percepisco proiettata verso l’Oltre”.
Obbligandoci a pensare che forse dovremo ancora fare i conti, nel prossimo futuro, con la sua straordinaria avventura poetica ed espressiva.
Enzo Di Martino, Venezia, giugno 2016
Dalla presentazione in Catalogo delle acqueforti esposte nella personale a Mantova presso la Galleria Arianna Sartori nell'ottobre 2018 e dal titolo "Luce Acqua Vento 2 - Luce e Ombra, Incisioni". Un Trittico nel segno della poesia
Come molti esempi storici documentano, sappiamo bene che esistono relazioni misteriose tra il segno inciso all’acquaforte e le parole di una poesia, forse perché entrambi manifestano, ognuno con la propria specificità espressiva, una possibilità evocativa piuttosto che descrittiva o narrativa.
Accade anche nel rapporto evidente che si può notare in queste tre preziose incisioni calcografiche di Gabriella Capodiferro che lei stessa ha voluto accostare, sollecitata forse dalla pura emotività, a tre enigmatici poemi del grande Tagore.
Le tre incisioni della Capodiferro configurano spazi irreali, non immediatamente riconoscibili, attraversati da segni di diversa valenza formale ed espressiva, immersi peraltro, almeno in due casi, in una atmosfera di sospesa surrealtà derivante da una intensa e coinvolgente tessitura granulosa che sembra emergere dall’interno della stessa materia.
Una delle tre incisioni è invece affidata al solo segno, organizzato per gruppi all’interno di un campo bianco, che esprime tuttavia differenti graduazioni di valenze formali oltre che emozionali.
In tutti e tre i casi lo spazio appare sempre e comunque un elemento che conta, cioè estremamente significante di un avvenimento visivo inatteso e sorprendente, prima inesistente.
Perché, a ben vedere, i segni che lo occupano stabilmente derivano da significativi gesti espressivi e configurano infine veri e propri segnali poetici.
I tre pensieri poetici di Tagore hanno a che fare anch’essi con realtà non riconoscibili immediatamente perché evocano a volte “il Grande, colui che vede la Verità Suprema oltre il tempo e lo spazio”, mentre altre volte obbligano a misurarci con concetti quali “l’informe e l’illimitato” perché, dice infine il grande poeta indiano, “tessute sono le vesti della terra con trame di verde e azzurro”.
Si tratta di riflessioni evidentemente distanti dalla quotidianità, in grado al contrario di condurci all’interno di una straordinaria e coinvolgente condizione di intensa spiritualità.
Ma la cosiddetta religiosità di Tagore ha però a che fare con un pensiero riconoscibile a tutte le latitudini perché pone sempre al centro l’uomo e la sua avventura esistenziale, ad esempio quando afferma “tu, mio Signore, ti tiri in disparte per lasciami posto, ch’io possa colmare la mia vita”.
Appare infine per tale via uno straordinario “trittico poetico” fatto di segni e di parole che, nella loro comune spiritualità, risultano insediarsi stabilmente, e divenire perciò incancellabili, nella mente e nel cuore di ciascuno di noi.
Enzo Di Martino - Venezia, settembre 2018
Qui la presentazione alla Mostra "Luce acqua vento" a Venezia in lingua inglese