La libertà totale di fronte alla realtà fenomenica, che era stata all'inizio del secolo la conquista (o solo la rivendicazione) dell'avanguardia europea, mantiene ancora — nell'esperienza della Capodiferro — valore d'orizzonte.
In meno, rispetto p. es. ai fauves, la lucidità profetica e il furore utopico di chi opera in fase di radicale rifiuto nei confronti di una cultura accademica e in agonia. In più, matura in lei la coscienza (forse non realizzata esteticamente, quanto a livello etico sofferta) che la pur necessaria affermazione dell'autonomia della ricerca artistica, quando non rimandi incessantemente all'uomo com'è ora (e alla donna, al nucleo sociale « naturale », ai sentimenti elementari, alla condizione materiale, alla tragica festa della vita...), all'uomo com'è ancora, significa però eludere il problema del dopo questa lunga agonia dell'egemone cultura borghese-occidentale, e quindi significa implicitamente riaffermare la separatezza dell'attività intellettuale e della prassi creativa.
E invece, indagare intorno e fin dentro l'individuo (la figura: il retaggio di cinque secoli di antropocentrismo) è, per lei, denudare la coppia: gli amanti; e studiare i loro incontri, scoprirne le tensioni, è allora già rivelarsi alla propria concreta dimensione sociale, e — attraverso il lavoro artistico — dare senso quotidiano alla liberazione di tutti.
Nel vivo di tale non risolta contraddizione (fra la libertà —fuga? — dal reale e la liberazione del reale nella storia), Gabriella Capodiferro trova la forza di scrollarsi di dosso il peso dell'idealismo (e della statica sua visione del mondo) e di disporsi all'accettazione critica dei nuovi germi dell'uomo nuovo.